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La Strage del Morrone

Il Pastore del Morrone: Quando la Montagna Diventa Teatro dell'Orrore

20 agosto 1997. Le sorelle Diana e Silvia Olivetti, insieme all'amica Tamara Gobbo, salgono verso la cima del Monte Morrone. Non sanno che quell'escursione cambierà tutto. Per sempre.


Il sole dell'alba illumina i sentieri della Maiella quando tre giovani donne partono dall'agricampeggio "Colle dei Lupi". Diana, 21 anni, sogna l'università dopo il lavoro da elettricista. Silvia, 23, grafica pubblicitaria che fatica in fabbrica. Tamara, anche lei 23enne, segretaria esperta di computer costretta a pulire ospedali in attesa di tempi migliori. Sono ragazze semplici, del Padovano. Messa la domenica, volontariato in parrocchia, qualche gita in montagna come quella dell'anno prima, sempre qui, nel parco della Maiella. Il posto perfetto per staccare dalla routine, respirare aria pura, magari incontrare qualche daino tra i boschi.

Alle otto del mattino imboccano la via delle Signore, il percorso più dolce verso la vetta. Camminano chiacchierando, fermandosi per ammirare i panorami che si aprono tra le faggete. Dopo due ore raggiungono Mandra Castrata, dove il bosco si fa più fitto e i sentieri si moltiplicano.

È lì che lo vedono. Un uomo a cavallo, giovane ma dall'aspetto trasandato. Abiti sporchi, barba incolta, sguardo vuoto. Diana alza la voce per chiedergli indicazioni verso la cima del Morrone. L'uomo fa un cenno vago con la mano e le ragazze proseguono, ringraziando. Ma dopo dieci minuti si accorgono che le sta seguendo. Il pastore macedone - ventiquattro anni, clandestino, vive in solitudine a 1700 metri di quota - raggiunge le tre amiche. Parla poco, con un italiano stentato. Dice che più avanti ci sono cani pericolosi, conosce una strada alternativa nel bosco. Può accompagnarle.

Le ragazze si guardano incerte. Non si fidano, ma quella montagna non la conoscono. Alla fine accettano.

L'uomo cammina davanti, girandosi ogni tanto per indicare la direzione. Il viso inespressivo, gli occhi che sembrano guardare oltre le cose. Man mano che si addentrano nel bosco, l'atmosfera si fa più pesante. I rumori della civiltà svaniscono, sostituiti solo dal fruscio delle foglie e dal battito accelerato dei loro cuori.

Quando arrivano ai confini del bosco, qualcosa cambia.

Il pastore rallenta, si ferma. Si volta verso di loro e in quel momento le tre giovani capiscono che la loro vita non sarà più la stessa. Quello che era iniziato come una giornata di libertà tra le montagne sta per trasformarsi nel più terribile degli incubi. La mano dell'uomo si muove lentamente verso la giacca. Le ragazze vedono il metallo brillare sotto il sole d'agosto. Una pistola. "Ti prego, lasciaci andare!" urla Silvia. Le tre amiche offrono tutto quello che hanno negli zaini - soldi, oggetti, qualsiasi cosa - ma Alivebi Hasani, questo il nome del pastore macedone, vuole altro. Ordina loro di addentrarsi tra gli alberi, lontano da occhi indiscreti. Il primo sparo lacera il silenzio surreale del bosco. Silvia si accascia al suolo, le mani premute contro il fianco sanguinante. Gli altri due colpi seguono a distanza ravvicinata: Tamara crolla, morta sul colpo.

Diana tenta la fuga disperata, ma l'uomo la raggiunge dopo pochi metri. La costringe a spogliarsi, poi la violenta sotto la minaccia dell'arma. Un ultimo sparo. Anche per Diana non c'è più nulla da fare.

Silvia, con un proiettile nell'addome, ha la lucidità di fingersi morta. È questo che le salva la vita. Quando l'assassino si allontana, si nasconde dietro una roccia mentre la pioggia inizia a cadere e la nebbia avvolge il paesaggio, rendendolo ancora più spettrale. Due ore. Due interminabili ore prima di trovare la forza di alzarsi e cercare aiuto, con le mani premute sulla ferita che brucia come fuoco. Cinque ore di cammino nella disperazione più totale, mentre le forze l'abbandonano e il terrore di essere inseguita non la lascia mai.

Alle 15:30, Mariagrazia Centofanti vede una ragazza sanguinante avvicinarsi alla sua casa nella piazzetta di San Giuseppe alle Marane. Il viso stravolto dal terrore, le urla disperate: "Ha ucciso mia sorella e la mia amica! Un pastore armato!" I soccorsi arrivano in fretta. Silvia viene trasportata d'urgenza all'ospedale di Sulmona mentre i carabinieri iniziano le ricerche. La sua testimonianza è precisa, dettagliata: permette agli investigatori di localizzare l'assassino nello stazzo di Capoposto, a 1700 metri di altitudine.

Alle 23:30 dello stesso giorno, Alivebi Hasani viene arrestato. Lo trovano che dorme serenamente, come se nulla fosse accaduto. Ha con sé tre pistole e non oppone resistenza. Non nega nemmeno i delitti.

Durante gli interrogatori emerge un quadro agghiacciante. L'avvocato difensore Nino Marazzita lo descriverà così: "I suoi occhi erano vuoti, la faccia piatta e sbiadita come una fotografia venuta male. Aveva perso la sua identità umana."

Hasani confessa di essere stato travolto prima dal desiderio sessuale, poi da una furia cieca. "Volevo il silenzio", ripeterà meccanicamente. Le urla delle ragazze lo avevano esasperato, annebbiandogli la ragione. Non aveva alcuna coscienza del male compiuto. Nel bosco vengono ritrovati i corpi di Diana e Tamara. Diana è completamente nuda, i vestiti sparsi a metri di distanza. Tamara invece è vestita, il corpo non lontano dall'amica. Il processo si conclude nel 1999 con la condanna all'ergastolo per omicidio plurimo aggravato, tentato omicidio, violenza sessuale e porto abusivo di armi. Nel 2005 Hasani viene trasferito in Macedonia, dove sconterà il resto della pena.

Restano alcuni punti oscuri. Qualcuno ipotizzò la presenza di complici, ma non fu mai provato nulla. Il procuratore Giuseppe Belleli, nel 2021, dichiarò che non esistevano elementi sufficienti per riaprire il caso. Silvia, l'unica sopravvissuta, si è ricostruita una vita altrove. Il suo coraggio quel giorno ha permesso di assicurare il mostro del Morrone alla giustizia, ma il prezzo pagato - la perdita della sorella e dell'amica - rimane una ferita che nessuna condanna potrà mai rimarginare.

La montagna, testimone silenzioso di quella tragedia, conserva ancora oggi il ricordo di tre ragazze che volevano solo respirare aria pura e ammirare i panorami d'Abruzzo. Solo una di loro è tornata a valle per raccontare l'orrore.